[testo apparso su Robot n.72, autunno 2014]

Una premessa importante: io non volevo. Non volevo vivere di traduzioni, e per un certo periodo della mia vita ho fatto altro: mi sono trovata un lavoro serio, da brava impiegata, con lo stipendio fisso a fine mese, la malattia, le ferie pagate eccetera. Solo che mi è andata male: la società per cui lavoravo ha chiuso, e sono rimasta a spasso. Allora non lo sapevo, ma quel rovescio di fortuna non era altro che un’avvisaglia, uno dei primi segni della bufera che di lì a qualche anno si sarebbe abbattuta sul mondo del lavoro, sgretolando certezze, diritti e garanzie. E così, dato che come impiegata non sono mai stata un gran che, mentre come traduttrice qualche risultato decente lo avevo già ottenuto, mi sono arresa all’evidenza: quello del traduttore è un lavoro che non consiglierei a nessuno, ma è probabilmente una delle poche cose che so fare davvero.

Ma è ancora possibile vivere di traduzioni oggi, in Italia? E soprattutto, è possibile vivere di traduzioni di fantascienza? Le considerazioni che seguono si basano sia sulla mia esperienza personale, sia su anni di scambi e frequentazioni di mailing list dedicate alla traduzione, come Biblit e Qwerty, sia su una serie di chiacchierate con alcuni amici traduttori di fantascienza.

Cominciamo subito col dire che il traduttore italiano parte già svantaggiato rispetto ai colleghi di altri Paesi: nonostante la legge italiana sul diritto d’autore, che regola la retribuzione e il regime fiscale dei traduttori editoriali, preveda (art.130) che una traduzione possa essere retribuita o con un compenso “a stralcio”, o con una percentuale sulle vendite, oppure con un compenso misto, la quasi totalità dei contratti contempla unicamente una tariffa a stralcio, cioè a cartella da 2.000 caratteri spazi inclusi. La tariffa è onnicomprensiva, nel senso che normalmente i traduttori editoriali non partecipano allo sfruttamento dei diritti secondari e di elaborazione, cioè i diritti diversi da quello principale di pubblicazione in volume (riduzione cinematografica, televisiva ecc.) e non ricevono ulteriori compensi in caso di cessione a terzi da parte dell’editore dei diritti acquisiti con il contratto.

Ma a quanto ammonta la tariffa a stralcio a cartella? Secondo l’ultima inchiesta sulle tariffe per le traduzioni in diritto d’autore realizzata da Biblit – Idee e Risorse per Traduttori Letterari, che risale al 2011, tre anni fa la media a cartella (che corrisponde più o meno alla tariffa oraria, dato che la maggior parte dei partecipanti all’indagine ha dichiarato di impiegare dai 45 ai 60 minuti per tradurre una cartella) era pari a 14,1 euro. Gran parte del campione (38,9%), tuttavia, si collocava sotto i 13 euro. Va inoltre tenuto presente che l’inchiesta di Biblit, pur meritoria, presenta una serie di limiti legati al fatto che si tratta di un’indagine informale condotta su un campione autoselezionato (i volontari che hanno risposto al questionario); l’esperienza sul campo induce a ritenere che nella maggioranza dei casi le tariffe offerte ai traduttori fossero e siano tuttora più basse, e sia molto difficile superare il “muro di gomma” dei 12 euro.

Queste cifre riguardano ovviamente il compenso lordo percepito dal traduttore, al quale si applica la ritenuta d’acconto del 20% su un imponibile pari al 75% del lordo. Ne consegue che a una tariffa oraria lorda di 13 euro ne corrisponde una netta di poco superiore agli 11 euro. Considerando una giornata di 8 ore lavorative e un mese di 20 giorni lavorativi, e ipotizzando un traduttore professionista che sia così fortunato da lavorare continuativamente a 13 euro lordi a cartella per 10 mesi l’anno, abbiamo un reddito al netto della ritenuta d’acconto pari a circa 17.600 euro l’anno, sui quali va però calcolata l’IRPEF. Dato il carattere autonomo della professione, nonché il fatto che il regime fiscale applicato ai traduttori non prevede il versamento obbligatorio di contributi previdenziali, diventa difficile ipotizzare che una simile cifra possa permettere di garantirsi meccanismi di tutela sociale quali previdenza, malattia, maternità, eccetera.

Su questa situazione si sono abbattute le conseguenze della crisi, che negli ultimi due anni ha investito anche l’editoria: secondo il Rapporto 2013 sullo stato dell’editoria in Italia a cura dell’Ufficio studi AIE, nei primi 8 mesi del 2013 si registra un peggioramento ulteriore del 5,4% nei canali trade (librerie, siti di vendita online, grande distribuzione organizzata) rispetto allo stesso periodo del 2012. Questi numeri, e l’esigenza di risparmio che ad essi si accompagna, hanno probabilmente contribuito ad accentuare un fenomeno già in atto da tempo, ovvero la diminuzione dei titoli pubblicati in Italia che sono traduzioni da altre lingue: i libri tradotti erano il 25% nel 1995, il 23% nel 2000, e oggi sono circa il 20%.

La diminuzione delle uscite di libri tradotti, e di conseguenza del flusso di lavoro, ha acuito il divario già presente tra l’ offerta di traduttori sul mercato e la domanda da parte delle case editrici, alimentando così un “esercito di riserva” che favorisce la corsa al ribasso: se già in precedenza la tariffa non veniva proposta dal professionista, come normalmente avviene in altri settori di attività, ma imposta dal committente, attualmente i margini di trattativa, già scarsi, sono diventati quasi inesistenti. Non solo: negli ultimi due anni le tariffe, già da tempo sostanzialmente bloccate, in alcuni casi hanno addirittura cominciato a diminuire, e anche traduttori di lunga esperienza si sentono proporre cifre inferiori rispetto al passato, perfino da parte di grossi editori con cui sussiste un rapporto di collaborazione ormai consolidato. Alcuni editori, più attenti al risparmio che alla qualità, arrivano ad affidarsi a traduttori alle prime armi, a studenti o a non professionisti che di mestiere fanno altro e hanno già un reddito, pur di abbassare ulteriormente le tariffe.

Il risultato è che da un lato i traduttori più esperti e “costosi” hanno difficoltà a trovare lavoro; dall’altro chi accetta determinate condizioni pur di restare sul mercato è costretto a lavorare di più per poter far fronte alle spese della vita quotidiana, che certo non calano, con una conseguente diminuzione del tempo dedicato a ogni cartella, e quindi della qualità delle traduzioni.

A tutto ciò si aggiunge il problema della mancata puntualità nei pagamenti: la maggior parte dei contratti prevede un pagamento unico a determinati giorni dalla consegna (nella maggior parte dei casi 60, ma a volte, e ultimamente sempre più spesso, anche 90 o 120), ma secondo i dati di Biblit già tre anni fa le scadenze venivano rispettate solo in un caso su tre. Dato che la legge italiana non offre la possibilità di esigere il dovuto senza cause legali lunghe, costose e dall’esito incerto, diventa difficile per i traduttori ipotizzare un orizzonte lavorativo stabile, che permetta loro di realizzare progetti di vita a lungo termine, e in ultima analisi perfino di riuscire a guadagnarsi da vivere con la professione.

La situazione peggiora ulteriormente per la fantascienza, un genere da tempo snobbato dagli editori e confinato a una piccola nicchia di lettori appassionati. Stando ai dati del Rapporto AIE 2012, il mercato italofono coincide con quello domestico di 60,3 milioni di residenti, più alcuni milioni di residenti all’estero (mentre il mercato di lingua inglese può contare su un numero molto superiore di potenziali lettori e acquirenti). Se a ciò si aggiunge che, in base ai dati Istat sulla produzione e la lettura di libri in Italia, nel 2013 la percentuale di coloro che dichiaravano di aver letto, per motivi non strettamente scolastici o professionali, almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista era pari al 43% della popolazione, e di questi il 46,6% non aveva letto più di 3 libri in 12 mesi, mentre i “lettori forti”, cioè chi aveva letto 12 o più libri nello stesso lasso di tempo, erano solo il 13,9%, è chiaro che i margini di sopravvivenza per un genere già di per sé di nicchia come la fantascienza sono estremamente ridotti. Ne consegue che gli editori di fantascienza attivi sul mercato sono sempre meno, la tendenza alla diminuzione del numero di libri tradotti è ancora più forte e le opere degli autori stranieri importanti faticano ad arrivare in Italia.

Nonostante la presenza di editori, anche piccoli, che lavorano con cura e competenza, pagando puntualmente tariffe dignitose, si ripropongono quindi amplificati, in un mercato che comunque è sempre stato assai limitato, i problemi del traduttore in generale: tariffe bloccate, molto basse o che diminuiscono (il “muro di gomma” dei 12 euro per il traduttore di fantascienza è quasi sempre un lontano miraggio), spesso addirittura a forfait; margini di trattativa inesistenti; tentativi di giocare al ribasso da parte degli editori; tempi di pagamento lunghissimi. A tutto questo si aggiungono i tempi di consegna, spesso molto stretti, che, in mancanza di una redazione specificamente attrezzata alla revisione della fantascienza, incidono moltissimo sul prodotto finale.

Se è vero infatti che la cura editoriale riservata ai romanzi di genere, anche da parte di editori blasonati, è spesso nettamente inferiore a quella dedicata alle opere di narrativa “letteraria”, è altrettanto vero che la fantascienza ha da scontare un passato di pressapochismo redazionale particolarmente pesante, che ha contribuito non poco a consolidarne l’immagine di letteratura di serie B: romanzi tagliati, sfrondati e semplificati da redattori scarsamente attenti o prevenuti verso i linguaggi specialistici.

Anche in questo caso, le conseguenze risultano più gravi per un genere che richiede numerose competenze specifiche: un linguaggio e delle cognizioni tecniche, una conoscenza approfondita del genere e delle sue peculiarità, stilistiche e di contenuto, nonché l’esperienza e la capacità inventiva necessarie per elaborare (o riconoscere e apprezzare in fase di revisione) le soluzioni traduttive più adeguate a rendere i neologismi e le invenzioni linguistiche di cui abbonda la narrativa del futuro. Tutti requisiti che difficilmente potranno possedere, o mettere in pratica, traduttori e revisori costretti a lavorare con tempi strettissimi e scelti unicamente (anche i revisori, quando sono collaboratori esterni) in base alla modestia delle loro pretese economiche.

Molti traduttori, di fantascienza e non, lamentano da tempo l’incapacità da parte della categoria in Italia di fare “fronte comune” (come invece succede in altri Paesi) e auspicano una maggiore “coscienza di classe”, che dovrebbe tradursi anche nell’impegno a rifiutare tariffe ritenute umilianti. Ma nell’attuale situazione risulta molto difficile mettere in atto simili lodevoli propositi: la crisi acuisce le necessità economiche immediate, erode gli eventuali risparmi accumulati e rende troppo rischioso non accettare un lavoro senza alcuna garanzia di vedersene offrire un altro in tempi brevi, e a condizioni più vantaggiose.

Nonostante il fascino che il mestiere del traduttore continua a esercitare su molti giovani sventurati, assidui frequentatori di master, corsi di laurea e di specializzazione in traduzione, se le attuali tendenze persisteranno o si aggraveranno è ragionevole supporre che questa attività resterà appannaggio di chi dispone di altri introiti, o può contare sull’aiuto economico di uno o più familiari.

Assisteremo quindi al declino e alla scomparsa del traduttore in quanto figura professionale, ovvero che vive del proprio lavoro? La traduzione si trasformerà in un hobby (molto scarsamente) retribuito, spesso coltivato per incoraggiare sogni di gloria che, dato lo scarso riconoscimento di cui gode la figura del traduttore in Italia, sono probabilmente destinati a restare nel cassetto?

La qualità di un libro tradotto dipende dall’opera del traduttore; se quest’ultimo non viene messo nelle condizioni di acquisire, affinare ed esercitare le competenze che stanno alla base del suo lavoro, e che sono il risultato di una pratica lunga e costante e di una riflessione che richiede tempo per dare i suoi frutti, il risultato sarà la pubblicazione di libri di cattiva qualità. Siamo sicuri che questo non sia un boomerang, per le vendite del libro, per chi lo ha pubblicato, per il genere a cui il romanzo appartiene e per l’editoria nel suo complesso? Oggi il libro deve competere con altre forme di intrattenimento assenti in passato, e con una riduzione sia del potere di acquisto, sia spesso anche del tempo libero a disposizione: siamo sicuri che non puntare sulla qualità non significhi condannarsi a perdere la battaglia?

I lettori forti saranno pure una minoranza di cui l’editoria italiana ha deciso di non curarsi, ma sono anche quelli che sanno distinguere una buona traduzione da una cattiva traduzione, e spesso possiedono gli strumenti per ovviare al problema decidendo di leggere in lingua originale (in particolare per la narrativa in inglese). I lettori occasionali da parte loro potranno non essere del tutto consapevoli che la scarsa qualità del libro che stanno leggendo dipende anche da una cattiva traduzione, ma davanti a un romanzo scritto male, con una lingua piatta e periodi involuti e faticosi, potrebbero decidere, la prossima volta, di investire tempo o risorse in un videogioco, o in una serie televisiva: il bisogno di storie è più antico della parola scritta, e se la parola scritta non riesce più a essere un veicolo efficace tale bisogno potrebbe benissimo sopravviverle e rivolgersi ad altri media, che assolvano al compito con maggiore efficacia.

Se le cose stanno davvero così, non resta che auspicare e cercare di promuovere un cambiamento delle politiche editoriali e culturali, che coinvolga possibilmente anche le istituzioni: iniziative di sostegno alla traduzione, sulla falsariga di quelle adottate in altri Paesi europei; la creazione di un tariffario minimo di riferimento e l’adozione di un contratto modello. Ma esiste anche la possibilità che gli editori abbiano ragione, che il pubblico dei lettori occasionali non possieda in realtà gli strumenti per percepire la qualità di un libro, e che nell’attuale scenario la corsa al ribasso sia in effetti l’unica strategia in grado di assicurare la sopravvivenza.

O forse sono le domande stesse, e le relative risposte, a essere ormai irrilevanti in un panorama economico e politico che sembra muoversi nella direzione opposta: riforme del lavoro che diminuiscono le già scarse tutele invece di aumentarle, al punto che l’incertezza del futuro, il divario tra domanda e offerta di lavoro, la corsa al ribasso nelle retribuzioni, il venir meno dei meccanismi di tutela sociale e l’assenza di margini di negoziazione non appaiono più come peculiarità della condizione del traduttore, ma riguardano ormai una componente sempre crescente, probabilmente maggioritaria, dei lavoratori, non solo in Italia ma anche, sia pure a volte in maniera più graduale e meno drammatica, in tutto l’Occidente industrializzato.

Ci attende dunque un futuro in cui sia la solidarietà di classe, sia l’esperienza e la professionalità, ovvero le due armi di cui il lavoratore dispone per far valere i propri diritti e dare valore al proprio lavoro, saranno ormai spuntate e inutili? Sarebbe un futuro di proletarizzazione che si presta benissimo a fornire lo spunto per un romanzo di fantascienza.

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