[Testo incluso nell’edizione BUR del 2019]

La presente traduzione di Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley segue l’edizione riveduta dall’autrice e pubblicata nel 1831 (London, Henry Colburn and Richard Bentley). Sul sito web Project Gutenberg è disponibile una ristampa anastatica (https://www.gutenberg.org/ebooks/42324). Sul sito della University of Maryland (https://romantic-circles.org/editions/frankenstein) è reperibile un’edizione annotata a cura di Stuart Curran, che contiene sia il testo dell’edizione del 1831, sia quello della prima edizione pubblicata nel 1818.

Porre mano a una nuova traduzione di Frankenstein è impresa quanto mai ardua, perché risulta estremamente difficile distaccarsi dalla lunga storia di quest’opera, dall’enorme quantità di echi che la sua presenza profondamente radicata all’interno dell’immaginario collettivo ha prodotto.

Credo che una delle sfide principali da affrontare sia la ricerca, all’interno della prosa e dello stile, di quegli elementi che fanno emergere con particolare intensità i temi e le suggestioni che ancora oggi continuano ad attirare a questo testo nuove generazioni di lettori. Spesso si ritiene che la scrittura di Frankenstein sia la parte più datata e meno interessante del romanzo, mentre la sua forza risiede nell’idea.

Eppure, nonostante la patina del tempo si percepisca, a mio avviso, soprattutto là dove, come si legge nella prefazione all’edizione del 1818[1], la “preoccupazione principale” dell’autrice è stata “mostrare la dolcezza degli affetti familiari e l’eccellenza della virtù universale”, essa non è quasi mai avvertibile nella limpidezza con la quale la creatura di Victor Frankenstein si rivolge al proprio creatore, nella lucidità con cui racconta la propria storia, e soprattutto pone la parola fine alla vicenda, dato che l’ultima voce che risuona nella mente del lettore prima di chiudere il libro è proprio la sua. E infatti non è un caso che, confrontando il testo dell’edizione 1818 con quello dell’edizione 1831, le parole della creatura siano tra quelle che hanno subito meno interventi da parte dell’autrice, conservandosi quasi del tutto intatte da una stesura all’altra.

Ed è proprio il “mostro”, come lo chiama Victor, il “wretch” (uno dei principali appellativi con cui viene definito nel corso del romanzo, e che ho scelto di tradurre con “disgraziato” per conservarne l’ambiguità, dato che è un termine che può indicare sia una persona che viene colpita da innumerevoli disgrazie, sia un mascalzone, uno che le disgrazie le causa agli altri), a pronunciare un’affermazione che, nella sua apparente ineluttabilità, suona, o dovrebbe suonare per noi, come una sfida: “i sensi degli uomini rappresentano una barriera insormontabile alla nostra convivenza”. L’orrore suscitato dalla vista del mostro rende impossibile agli uomini vivere con lui “in bontà reciproca”. È questo orrore a spingere Victor alla fuga di fronte alla sua creatura che prende vita, a traumatizzare le giovani donne che abitano nella casa in cui la creatura vorrebbe essere accolta, e a provocare la violenta reazione del loro fratello e marito, che scaccia la creatura a bastonate.

Cosa vediamo dunque quando guardiamo l’altro da noi? I nostri sensi sono davvero un ostacolo insormontabile? È possibile che i pregiudizi più profondi da cui sempre più spesso ci lasciamo dominare abbiano una radice pre-razionale, per combattere la quale non basta un deliberato atto di volontà, ma occorre anche una radicale rivoluzione nella nostra stessa percezione del mondo? E in caso affermativo, tale rivoluzione è davvero realizzabile? Possiamo imparare a guardare e a vedere con occhi nuovi, in un mondo in cui siamo sempre più circondati dall’altro, dagli altri, dei quali la creatura di questo romanzo rappresenta forse una metafora ancora più potente, proprio perché viene portata alle sue estreme conseguenze? Possiamo trascendere i nostri limiti di homo sapiens, in un mondo in cui, da qui a non molto, potremmo trovarci di fronte ad altre progenie, basate sul silicio e non sul carbonio, diverse dalla creatura di Victor ma altrettanto aliene, se non di più?

Questo interrogativo, che emerge con potenza e chiarezza nella prosa di Mary Shelley, suona oggi forse ancora più pertinente di due secoli fa, e noi tutti siamo quotidianamente chiamati, in quanto esseri umani, a dargli una risposta.


[1] È interessante notare come nell’introduzione all’edizione del 1831 Mary Shelley dichiari che tale prefazione sia l’unica parte del romanzo a cui abbia messo mano il marito: “Per quello che ricordo” afferma “è stata scritta interamente da lui”.

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