sei seduto al bancone di quella tavola calda del midwest (cercasi personale): tavoli di formica, sedie di plastica, luci al neon, desolazione. Sei solo.

Ti osservo sorseggiare lentamente un caffè dal colore indefinibile, lanciando sporadiche occhiate all’immagine riflessa nello specchio di fronte a te. Sembri stanco: hai le occhiaie, le rughe sulla fronte e sulle tempie sono profonde. Dai le spalle all’ingresso; non ti volti mai verso la tenebra vuota che si estende appena fuori dal cerchio di luce dell’insegna. Non puoi vedermi.

In questa mia condizione così peculiare, che tu stesso mi hai assegnato, posso esistere solo come puro pensiero, ombra disincarnata. Ho provato a infestare i tuoi sogni, ma tu non sei come il povero Humbert: non sono riuscita a strapparti né paura, né dolore, né rimorso. Solo un vago, divertito compiacimento.

Tu, che nella tua postfazione hai lamentato di essere stato costretto ad abbandonare la tua lingua natale per una marca di inglese di seconda scelta, non hai idea di cosa si provi a venir derubati della propria voce, della propria sorte, della propria vita, ridotti a un puro pretesto per il dispiegarsi del vizio altrui. Una peccatrice di seconda scelta.

No, in realtà lo sai benissimo, altrimenti non avresti parlato del mio fratellino che è volato in cielo, non avresti raccontato della mia amica Avis, della sua mamma e del suo papà, della casa, dei fratellini e dei cani, e di me che non avevo niente. Peggio: avevo Humbert. Non mi hai mai lasciato scampo. Né prima, né durante, né dopo.

Ti seguirò fino alla tua camera d’albergo, scriverò queste parole nel vapore che appanna lo specchio del bagno mentre sei sotto la doccia, nella polvere del comodino, nelle macchie di umidità del soffitto, nei giochi di luce e d’ombra creati sulla parete di fronte al letto dalla tenda della finestra semiaperta, smossa dal vento.

Forse un giorno mi sentirai.

Lo

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