Primo romanzo di Dan Chaon, pubblicato nel 2004, Il riflesso del passato è un’opera che a una prima occhiata si presenta anche graficamente come una narrazione molto più lineare, priva del montaggio vertiginoso e della pluralità di stili, atmosfere, registri linguistici, rimandi e riferimenti che caratterizza La volontà del male, dato alle stampe tredici anni dopo.
Eppure si tratta di una semplicità ingannevole, perché bastano poche pagine per capire che, sia pure dietro a una struttura molto più classica, l’horror vacui del circolo vizioso e privo di senso in cui siamo gettati alla nascita è anche qui il tema di fondo del romanzo: la vita è “una serie di scatole cinesi, un labirinto in cui” continuare “a correre senza mai trovare l’uscita”.
“Non c’è via di fuga per nessuno, da nessuna parte”, e lo si percepisce nelle visuali “a volo d’uccello” che compaiono già dalle prime pagine, in cui i personaggi sembrano agitarsi senza costrutto in un mondo ridotto a una “vasta pianura di polvere e vento”, dove perfino gli animali possono trasformarsi di notte in messaggeri inconsapevoli di morte; lo si coglie nella disperazione provocata dal pensiero che il mondo possa essere “soltanto una serie di echi, in cui ogni oggetto ne rispecchiava un altro a caso, a vuoto, una vasta, multiforme e insensata serie di ripetizioni”.
Il tutto è reso in uno stile in apparenza cristallino ma tutt’altro che facile da tradurre, perché è il risultato di una costruzione molto complessa, ricca di metafore (quelle cinematografiche in primis) e di passaggi in cui il rispecchiamento tra la desolazione esteriore del paesaggio naturale e urbano (le cittadine morenti del Nebraska e del Sud Dakota) e quella interiore dei personaggi dà luogo a momenti lirici di grande potenza.
“Che cosa vuoi? Che cosa vuoi dalla vita?” è la domanda a cui per tutto il romanzo Jonah cerca disperatamente di rispondere, senza riuscirci; da bambino è rimasto “morto per breve tempo prima che i soccorritori lo riportassero in vita” e nonostante questo sia forse “l’evento centrale del resto della sua esistenza”, “quello che ha messo in moto il suo futuro”, è anche l’evento a cui lui cerca in tutti modi di sfuggire, imbastendo una complicatissima serie di bugie dietro le quali nascondersi, come se aver vissuto la vita che ha vissuto fosse una colpa imperdonabile, una vergogna indicibile, da occultare a ogni costo.
E nonostante la vicenda personale di Troy sembri invece aprire uno spiraglio di speranza, dato che Troy pare essere non solo l’unico tra i protagonisti ad avere un’idea di cosa vuole, ma anche l’unico a ottenere ciò che vuole (“Sono un uomo fortunato”. “La cosa migliore che potesse mai succedermi, mi è già successa”.), perfino lui a volte non sembra del tutto convinto della solidità della propria esistenza: “ha un attimo di dubbio, una raffica che lo disancora, un momento Rip van Winkle”, “la sensazione di aver perso la nozione del tempo, di essere alla deriva”, come se solo un battito di ciglia ci separasse dal passato, dal presente o dal futuro. “Potrebbe svegliarsi e scoprire che in realtà Loomis è sparito tanto tempo prima e non è mai tornato, non ha lasciato niente tranne un’immagine ritoccata al computer”, “la foto segnaletica di un bambino scomparso”.
Se è vero quello che pensa Jonah, ovvero che “tutti sembrano convinti che sia solo questione di natura o di ambiente, o di una combinazione tra i due, ma la sai una cosa? Io credo che sia ancora peggio di così. Credo che sia tutto… casuale. È solo questione di caos e fortuna”, allora forse anche il lieto fine di Troy è a sua volta puro caos, una distrazione della fortuna che nella sua cecità si è dimenticata di infierire su di lui e su suo figlio; o forse per un attimo l’occhio spietato della volontà del male si è distolto, andando a fissare la propria attenzione malevola su qualcun altro.